👊🐲 CICLO A COLPI DI SHAW: L’INFERNO DEI MONGOLI

 

Giunto alla corte del Kublai-Khan, Marco Polo viene accolto solennemente e incaricato di raccogliere notizie durante il viaggio che intende compiere nell’Impero cinese attualmente dominato dai Mongoli. Dopo tre anni, di ritorno al palazzo del Gran Khan, il viaggiatore veneziano consegna una relazione al suo committente che questi legge in circa un mese. Sapendo di focolai di rivolta, il tiranno invia Marco Polo alla testa dell’esercito e con la scorta di tre formidabili guerrieri. Questi, però, comincia a dubitare dell’onesta della missione che gli è stata affidata.

 

Il seguente video non fa parte del sito www.cinemazoo.it,
ma è solamente incorporato e presente su un’altra piattaforma.

 

 

Titolo originale: Ma Ko Po Lo
Anno: 1975 I Paese: Hong Kong
Regia: Chang Cheh
Attori: Alexander Fu ShengRichard HarrisonGordon Liu (Liu-Cha Hui)
 

 

Classe 1935, il ragazzone statunitense Richard Harrison entra nel grande mondo del cinema negli anni Cinquanta e già nei Sessanta è un valido esponente della serie Z: dall’avventuroso al peplum al western, dite un genere che sfornava filmacci all’epoca ed Harrison ce lo trovate. Molti dei suoi film degli anni Sessanta li ha girati in Italia, essendo all’epoca la nostra industria molto attiva e competitiva, poi di filmaccio in filmaccio negli anni Settanta Harrison si ritrova ad Hong Kong, dove rimarrà per un decennio che l’ha traumatizzato: diventato “maestro ninja” negli anni Ottanta, ha deciso che era il momento di appendere la katana al chiodo.

I cineasti di Hong Kong adorano i gweilo, i “diavoli bianchi” stranieri a cui affidare parti da cattivo cialtronesco, con boccacce e gesti esagerati, quindi l’alto, baffuto e castano Harrison sin da subito conquista i cuori locali, diventando qui paradossalmente uno dei rarissimi occidentali ad interpretare ruoli positivi

In un prologo senza baffi, Harrison qui entra in scena nei panni di Marco Polo, arrivato fresco fresco da un viaggio di un milione di chilometri fresco e riposato: mi stanco più io a fare il pendolare.

Accolto da Kubilai Khan (Li Tong-Chun) con una festa in cui Marco deve rimanere sempre in piedi (sarà un’usanza locale?), nella stessa occasione il dominatore mongolo dell’impero cinese assiste a un torneo marziale in cui sceglierà i tre migliori lottatori come “guardie del corpo”. Ipotizzo che con questo termine generico si intendano i kesigten, «i fedelissimi guardiani imperiali» usati anche per reprimere insurrezioni, come mi spiega Vito Bianchi.

Spero che abbiate notato come i tre perfidi lottatori, fiancheggiatori dei Mongoli quindi infami per definizione, siano interpretati da tre mostri sacri del genere.

Sparviero è Leung Kar-Yan, attore muscoloso che in gioventù era caratterizzato da una barba stranamente folta per essere cinese, popolo notoriamente implume, e quindi perfetto per il ruolo: i cinesi duecenteschi identificavano nelle barbe il simbolo degli invasori, che fossero Mongoli od occidentali.

Orso Grigio è Johnny Wang, che con quella faccia faceva giustamente l’infame fisso alla Shaw Bros.

Infine Lupo Astuto è interpretato da uno dei più mitici di sempre, Liu Jia-Hui meglio noto come Gordon Liu, figlio adottivo di Liu Chia-Liang (colonna portante del cinema marziale): a parte forse apparizioni difficili da stabilire, questa è la prima e unica apparizione italiana dell’attore, i cui grandi film sono rimasti tutti inediti da noi finché Tarantino non gli ha regalato un minuscolo e totalmente inutile ruolo in Kill Bill (2003), dopo di che i nostri fenomenali distributori sono corsi a racimolare tutto quanto trovavano dell’attore. Scoprendo che evidentemente costava troppo, quindi hanno portato nelle nostre dvdteche solo briciole.

Kubilai prova subito fiducia per Marco Polo e inizia ad affidargli dei compiti, la cui non ufficialità serve agli storici per spiegare l’assenza del nome del veneziano negli archivi imperiali dell’epoca. «Emissario imperiale (chi-shih) con licenza di viaggio» mi spiega Vito Bianchi, ed è chiaro che in un vasto impero dove gli autoctoni cinesi sono vessati da mille regole e imposizioni, lo straniero Polo spicchi per privilegi tali che non lo rendono certo simpatico ai locali, nelle città che attraversa negli anni della sua missione.

Insieme alle tre guardie del corpo Marco va a stanare i focolai di ribellione che infiammano l’impero, ma il veneziano non è abituato ai “metodi mongoli” e rimane colpito dall’omicidio di un ribelle e dei suoi familiari. Nel piccolo ruolo del ribelle Aquila troviamo il giovane Carter Huang, in seguito meglio noto come Carter Wong: potreste ricordarlo in un piccolo film chiamato Grosso guaio a Chinatown (1986)…

Di ritorno dal massacro dei ribelli, incontriamo quattro lavoratori del sale, materia prima preziosissima e spesso utilizzata anche in sostituzione del denaro.

Tutti e quattro sono mostri sacri del cinema marziale di Hong Kong, colonne portanti della Shaw Bros e protagonisti di innumerevoli loro film: Chi Kuan-ChunBruce Tong e Phillip Kwok. Se avete mai visto un film della Shaw Bros, sicuramente li avrete già incontrati.
Una curiosità. L’ultimo, Kwok, interpreta il generale Chang in 007: il domani non muore mai (1997) ma soprattutto ha coreografato i combattimenti de Il patto dei lupi (2001) di Christophe Gans, e scusate se è poco.

Il quarto è il nome più famoso, anche se per poco, quel Fu Sheng che negli anni Settanta provarono a far sfondare negli USA con il nome di Alexander Seng, senza alcun successo.
Nella sua breve vita Fu Sheng ci ha regalato tanti ghiotti ruoli marziali: non mi sento di annoverare questo fra i suoi migliori.

Per dare una nota di colore alla vicenda, facciamo che i ribelli studino uno stile marziale molto particolare – il Bell Cover in inglese, mentre il doppiaggio italiano si inventa un curioso karagià – e i nostri quattro giovani ribelli vogliono apprenderlo per cominciare a prendere i Mongoli a calci nel sedere, visto che il divieto assoluto di portare armi impedisce altro tipo di rivolta.

I nostri eroi si fanno assumere come umili braccianti da un possidente di un paesino, il quale segretamente, persino a loro insaputa, insegna loro a rinforzare il corpo e quindi a diventare fenomenali lottatori. Chi spezza bambù, chi macina il riso, chi solleva pietre, chi spala letame: tutte attività umili ma che segretamente addestrano i giovani ribelli.

Marco Polo ha capito che c’è sotto qualcosa ma all’ultimo secondo decide che Kubilai Khan non è un “dittatore buono” e dopo un film passato a dare la caccia ai ribelli… alla fine parteggia per loro.

«Finché avrà uomini come voi, la Cina sarà un grande Paese.»

La totale incapacità di Richard Harrison di apparire vivo, o addirittura di muovere un qualsiasi muscolo facciale, si unisce alla totale confusione in cui versa su questo set: sicuramente essere l’unico a parlare inglese e quindi a non capire cosa stesse succedendo non ha aiutato le riprese, perciò Marco Polo sembra un ebete catatonico che si muove ignaro di sé, un cartonato che viene spostato di scena in scena senza capire nulla. E non è che negli altri film della sua carriera Harrison sfoggiasse chissà che recitazione.

L’esilissima trama finisce venti minuti prima dei titoli di testa, tempo dedicato al lunghissimo e tragico combattimento finale dove i quattro eroi si battono per la libertà della propria patria. Quattro contro cento… ma se si incazzano quei quattro…

Decisamente questo è fra i titoli minori del maestro Chang Cheh, perché sebbene mostri tutti i capisaldi della sua poetica – amicizia virile, adesione totale agli ideali più alti, combattere fino alla fine ed epica a grappolo – non riesce ad amalgamare tutto in un prodotto convincente: è palesemente la versione svogliata e povera de I giganti del karatè (1974), tanto da sembrare che qualcuno abbia rifatto quel film ma senza alcuna potenza evocativa o passione. (Ho scoperto di adorare questo viaggio storico-marziale, quindi ci sarà occasione di parlare di quel mitico film.)

L’idea di allenarsi di nascosto nelle arti marziali ha i numeri per essere alternativa al precedente film ma è troppo poco per salvare una vicenda che sembra sempre fuori fuoco. Curiosamente Gordon Liu, che qui è giusto un figurante, diventerà famoso di lì a qualche anno proprio con lo stesso spunto, imparando a lottare per la libertà del proprio Paese nel mitologico 36ª camera dello Shaolin (1978), altro titolo che troverete quanto prima in questo viaggio. I temi sono dunque buoni e giusti, ma ne L’inferno dei Mongoli sembra siano buttati via senza entusiasmo. Ma qual è allora il motivo della nascita di questo film, a parte continuare a sfruttare una formula che sembrava funzionare?

Nel 1974 Deng Xiaoping, richiamato dall’esilio solo l’anno precedente, prende la parola alle Nazioni Unite annunciando l’inizio di una epoca nuova nella politica estera cinese, era il momento di superare l’enorme arretratezza del Paese imparando dagli stranieri. «Dovunque vedo un’economia comunista vedo povertà, e dovunque vedo il sistema americano vedo la vita dei popoli arricchirsi» (parole citate ne La storia della Cina di Michael Wood). Questo discorso non farà certo piacere alla sua opposizione e Deng sarà ostacolato e osteggiato per anni, ma è curioso notare come le sue intenzioni corrispondevano proprio all’idea di Kubilai Khan: svecchiare un impero chiuso su se stesso mediante l’apertura al mondo esterno. Ci vorranno anni, ma quella annunciata da Deng nel ’74 diventerà la 改革开放 (Gaige kaifang), “la riforma e l’apertura“.

Hong Kong non era Cina, era una colonia inglese e una metropoli internazionale in cui i cinesi erano di solito sfuggiti alle persecuzioni maoiste, quindi non necessariamente la Shaw Bros poteva interessarsi alle politiche di quello che a tutti gli effetti era un altro Stato, cioè la Cina, ma è difficile non rilevare in questo film di Cheh un’eco delle intenzioni di Deng Xiaoping.

Se Kubilai Khan viene ritratto come un dittatore e i Mongoli come animali rabbiosi, stupisce l’evoluzione del personaggio di Marco Polo. È innegabilmente molto più straniero dei Mongoli, eppure da spietato servitore dei cani invasori diventa fedele alleato dei rivoltosi: come mai? Perché a un certo punto uno dei ribelli gli fa notare che le armate mongole controllano un territorio talmente vasto che non ci metteranno molto ad arrivare a Venezia, e una volta che la sua città sarà dominata con il terrore dallo straniero, che farà Marco? Accetterà di buon grado di sottomettersi? Nel momento in cui Polo ammette che nel caso lui si ribellerebbe all’invasore, l’alleanza è stretta: da servo del dittatore diventa fratello di ribellione.

Il film inizia con Marco Polo che cerca di stringere la mano senza riuscirci, perché in Cina non si usano certi contatti fisici, ma alla fine il ribelle morente gli stringe la mano, quasi a simboleggiare un patto di sangue stretto… fra chi? Forse non fra i cinesi, bensì fra gli abitanti di Hong Kong e gli occidentali, uniti dal nemico comune: la Cina! Mi piace notare come questo film sia stato girato subito dopo che gli ultimi elicotteri americani avevano abbandonato Saigon caduta, in una guerra in Vietnam in cui la Cina non era certo alleata degli occidentali.

Magari non è vero niente ed è solo una mia idea balzana, ma visto che di solito gli occidentali nei film di Hong Kong sono tutti brutti, stupidi e cattivi, è fortissimo il contrasto con questo Marco Polo buono e simpatizzante dei ribelli

In chiusura non posso non pensare che due anni dopo l’uscita italiana di questo film la RAI annunci quello che diventerà “Marco Polo” di Giuliano Montaldo, una delle più epiche produzioni RAI della storia, un prodotto venduto in tutto il mondo, con Marco Polo interpretato da Ken Marshall. Otto episodi che hanno tenuto l’intera Italia – compreso Casa Etrusca – davanti allo schermo. (Lo trovate su RaiPlay.)

Niente di strano in questa coincidenza, proprio nello stesso 1979 i giapponesi presentano l’anime “Le avventure di Marco Polo”, in Italia dal 1982 insieme alla serie RAI, e non era certo la prima volta: già l’Italia nel 1965 aveva partecipato alla co-produzione internazionale Le meravigliose avventure di Marco Polo con Horst Buchholz nel ruolo del veneziano. Però è davvero difficile non trovare nella sesta puntata della produzione RAI un’eco del film di Chang Cheh.

In quell’episodio infatti entra in scena un contadino cinese (Soon-Tek Oh, all’epoca fra i pochi volti asiatici noti al cinema, tanto che di lì a poco farà il cattivo in Missing in Action con Chuck Norris) che aprirà gli occhi a Marco Polo in una dinamica molto simile al film di Hong Kong, dove il veneziano cade dalle nuvole nello scoprire che il potere di cui si è fatto “agente speciale” non è illuminato come pensava, visto che non si limita a sfruttare i propri sottomessi ma a vessarli in mille modi crudeli. Niente di tutto questo si trova nel pittoresco e datatissimo film su Polo del 1965 – men che meno nei libri sull’argomento – è un qualcosa che mi piace pensare nata negli autori italiani grazie alla visione del film di Hong Kong.

Recensione da Il Zinefilo