UNIFORM VIRGIN: THE PREY [sub ITA]

 

Estate. Siamo in un liceo giapponese durante un corso di recupero di matematica. Il nostro protagonista è uno sfigato cronico: non è per niente brillante ed ha un’ossessione per le donne che, puntualmente, lo snobbano. In una sua visione malata delle cose, tuttavia, è convinto che le compagne (e anche l’avvenente professoressa) facciano a gara per dargliela. Quindi, il nostro baldo giovane, inizia a tampinarle…

 

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Titolo originale: Seifuku Shojo: Eijiki
Anno: 1986 I Paese: Giappone
Regia: Hisayasu Satô
Attori: Hiromi Kurata, Megumi Hayase, Yôko Aimoto
 

 

 

Prima di parlare del film, è necessario dare un paio di nozioni sull’autore Hisayasu Sato: uno dei maggiori esponenti del pinku underground, Sato è in realtà un autore sensibile e profondo che sfrutta il genere per raccontare la malattia e i rapporti impossibili tra esseri umani. Con “Birthday” e “Muscle” (già tradotti dal sottoscritto per aw) il regista giapponese ci aveva dimostrato come potesse anche parlare dell’amore puro, quello vero con una sensibilità dell’estremo che annichilisce, dilania, lascia esterrefatto. Mentre nella sua opera più famosa, “Naked Blood”, che sotto lo strato torture-splatter nascondeva una profonda riflessione sulla necessità del dolore nella vita, in contrapposizione con la serenità.

Il cinema di Sato è più complesso di quanto sembri. Puntarlo come pornografia è come aver visto un suo film bendati. I film di Sato spesso sviluppano le loro stranianti sceneggiature con lunghe, lunghissime, noiosissime (E LENTE) scene di sesso dovuti sia ad una forzatura da parte della casa di produzione cinematografica che, immagino di avergli più volte urlato contro: “Meno pippe intellettuali e più pippe fisiche”, quindi via a gemiti eterni e carni maschili e femminili come se piovessero. Ma il sesso, in Sato non è solo un’imposizione: è parte integrante della poetica. Il sesso nel cinema di Sato non è mai, MAI piacere, anche quando lo fanno due persone che si amano alla follia.

Ma per comprendere questo bisogna sapere che Hisayasu Sato ha dichiarato che, dopo aver subito continui e degradanti abusi sessuali da parte del patrigno (il tema del membro di una famiglia che violenta tutti i suoi familiari è ricorrente nelle sue opere), di essere privo di orientamento sessuale. A Sato non interessano né gli uomini e né le donne. Tuttavia, com’è possibile che il suo cinema lo descriva così bene? Certo, con pessimismo, occhio macabro…eppure è come se le perversioni appartenessero proprio dell’autore stesso. Perché è attraverso il cinema che Sato si esorcizza dall’impulso sessuale: ridicolizzandolo, estremizzandolo, rendendolo mostruoso, grottesco, spaventoso, ironico, comico, disperato.

Il sesso è la cosa più intima e viscerale (dai punti di vista sia fisici che psicologici) che può avvenire tra due esseri umani, che avvenga tra amanti o tra chi nemmeno si conosce. Nella settima arte di Sato, il rapporto sessuale è, prima di tutto, una ricerca di contatto, di comunicazione. E poiché i personaggi sono sempre terrorizzati dal mondo esterno, il rapporto sessuale non può che essere violento, degradante e, quando è dolce, non può che concludersi male. Sesso di tutti i tipi, di tutte le forme.

Sato non è il solito regista di pinku, perché non gode a guardare quello che filma. Il suo cinema fa paura e la paura più estrema avviene quando il violento fa irruzione nell’intimo. L’amore (e il sesso), nel cinema di Sato, è sia eterosessuale che omosessuale. Sato se ne frega dei bellimbusti e delle strafighe. Non vuole corpi perfetti, scolpiti: vuole carne. Ed è questo che annichilisce, disturba, distorce.

I personaggi di Sato non sono MAI in pace con sé stessi: non è un caso che ci sia sempre, da parte loro, il tentativo disperato di negarsi (in “Gimme Shelter” vedremo un buon padre di famiglia che, subito dopo si scopre gay), di isolarsi e studiarsi per capirsi meglio, di tagliare i ponti con la società o di farla a pezzi.

Contrariamente a quanto viene accusato, Sato non è misogino. è misantropo (in questo “Uniform Virgin” anche un uomo viene violentato dal protagonista).

ODIA TUTTI E, ALLO STESSO TEMPO, AMA TUTTI.

Anzi, sembra proprio che siano le donne ad avere la meglio e a dimostrarlo, c’è il finale, curiosamente simbolista e inquietante di questo film che vi sto presentare.

E ora passiamo ad “Uniform Virgin”, sicuramente il suo meno bello tra quelli che ho visto (sempre su livelli medio-alti-altissimi), ma importante tassello della sua sterminata filmografia. La sceneggiatura è stata scritta su un tovagliolo da bar, ma non importa: le due righe che la compongono bastano per dare il via a tutte le ossessioni del regista. Così c’è la cinepresa, ci sono i sogni infranti, la vendetta, l’irruzione del violento nell’intimo e nell’abitudine, fino a culminare in quella scena che è tipicamente Satoiana (una ragazza, dopo una disperata fuga dal suo aguzzino, viene raggiunta e stuprata in strada. I passanti non la aiutano, non fuggono, non chiamano nessuno: restano fermi a guardare. DIVERTITI.)

In questo violentissimo (psicologicamente è destabilizzante, ho fatto fatica a finirlo) film si palesa uno degli argomenti chiave del suo cinema: la contrapposizione tra facciata e interno. Così, la prof è rigorosissima ma non esita a gingillarsi con dei dildo nel bagno, mentre le ragazze sebbene pure cambiano radicalmente nelle fantasie del protagonista, diventando sostanzialmente delle ninfomani.

Difficilissimo giudicarlo, perchè sporca l’anima come pochi altri film, lascio a voi ogni parere. Nel frattempo, buona visione.

Recensione da Asianworld.it