I VAMPIRI

ILa storia è ambientata a Parigi, dove vengono rinvenuti numerosi cadaveri di fanciulle completamente dissanguate. Il giornalista Pierre Latin è deciso a chiarire il mistero

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Titolo originale: I Vampiri
Anno: 1957 I Paese: Italia
Regia: Riccardo FredaMario Bava (non accreditato)
Attori: Gianna Maria CanaleCarlo D’AngeloDario Michaelis 
 

 

SPOILER ALERT
Il film che si va ad affrontare è un’assoluta pietra miliare del cinema di genere, nostrano e non solo. Ciò che lo rende sublime non è tuttavia legato a discorsi di trama, forse un po’ acerba e a tratti claudicante, ma quasi irrilevante ai fini del nostro piccolo studio. A fare grande I vampiri sono le trovate tecniche, per il tempo ai limiti dell’impossibile, la tensione che cresce e l’aura di mistero magico che tuttora, quasi 60 anni dopo, incolla gli occhi allo schermo.
Non mi farò quindi scrupolo nello svelare il principale colpo di scena, preciso istante nel quale un film si permea di magia, risalendo l’Olimpo della celluloide.

Siamo nel 1957. Gli Stabilimenti Titanus della famiglia Lombardo, doverosamente omaggiati nella Retrospettiva locarnese nel necessario 35mm, affidano a Riccardo Freda la regia di quello che sarà il film capostipite del Gotico Italiano, riconosciuto come primo horror nostrano. Con lui, per l’ultima volta, il folle amore Gianna Maria Canale, bellissima nei suoi occhi viola e nella sua pelle di porcellana. Il budget è ridotto all’osso, ma c’è un giovane Direttore della Fotografia sanremese del quale si dicono meraviglie, in grado di sopperire alle carenze tecniche con idee geniali e capacità artigianali: il suo nome è Mario Bava. Diverse incomprensioni sul set porteranno all’abbandono del regista dopo due sole settimane di riprese, con l’incarico a Bava di finire il film, coregista debuttante non accreditato.

In una Parigi ricreata in studio a costi bassissimi, il ritrovamento nella Senna di una serie di giovani donne completamente dissanguate fa gridare al vampiro. Parallelamente alle indagini della polizia, il giornalista Pierre Valentin si immerge nella vicenda, portando alla luce un intreccio fatto di pseudomedicina, non accettazione della vecchiaia ed atavico amore.
Il tetro ed inquietante castello che domina la città è di proprietà della vecchia contessa Marguerite Du Grand, un tempo donna meravigliosa, la cui bellezza sembra rivivere nella splendida nipote Giselle. Il travagliato e mai ricambiato amore di Marguerite per il padre di Pierre è lo stesso della nipote Giselle verso il giornalista, freddo nel respingerla come pressato da un incontrollabile disagio. Emergerà una verità agghiacciante: la contessa, attraverso ripetute trasfusioni di sangue di giovani donne, riesce a tornare giovane per un tempo limitato, Giselle nient’altro è che Marguerite, il ‘vampiro’ nient’altro è che un esperimento medico criminale. Il movente nient’altro è che un amore insoddisfatto che supera le generazioni e calpesta vite umane.

Lasciando volutamente da parte qualsiasi considerazione sulla sceneggiatura, accettabile per il tempo ma oggi leggibile come troppo semplice e a tratti ingenuotta, emergono già molte delle caratteristiche fondamentali del Gotico e del cinema baviano in particolare. I Vampiri è un film in ebollizione, addizione di generi, idee e necessità. La produzione frediana è stata gigantesca e capillare, in grado di abbracciare neorealismo, kolossal, avventura, spionaggio, riedizioni di grandi classici letterari, fino appunto all’horror. Freda ha girato di tutto, con qualsiasi budget, con qualsiasi necessità produttiva, ritagliandosi un posto di prestigio nella storia del Cinema italiano. La povertà di mezzi ed il genere, tuttavia, portano I Vampiri ad essere considerato quasi più come un primo prototipo di Bava non accreditato pittosto che un Freda in fuga dal set. L’esiguità delle spese di produzione viene coperta o addirittura esaltata con una cura fotografica che crea spazi e profondità nel cartone, fra tagli di luce che allungano il campo, tende che svolazzano, ragnatele, carrellate e forme sghembe di memoria espressionista. La sequenza del primo rapimento presenta un inseguirsi drammatico di ombre che, partendo da Murnau, giunge al Lang di M – Il mostro di Dusseldorf (ricordato anche nel personaggio del mendicante cieco che indica all’ultima vittima l’indirizzo al quale ‘consegnare la busta’, andando incontro al sequestro), la povertà della scenografia viene sfruttata nel momento in cui Valentin sbaglia, a causa di un cartello stradale spostato, scala e casa del rapitore inseguito. Non manca neanche un riferimento a Frankenstein, nella miracolosa resurrezione del sequestratore, né quella centralità della cripta come necessario luogo cinematografico che da Bava giungerà più o meno negli stessi anni a Ed Wood, e conseguentemente al miglior Tim Burton.

La sequenza che svela il colpo di scena è uno dei più sensazionali colpi di genio che la storia del cinema in bianco e nero ricordi. Gianna Maria Canale invecchia ‘a vista’ davanti alla macchina da presa, senza l’arresto e sostituzione che aveva caratterizzato fino a quel momento tutte le metamorfosi sullo schermo, ben prima dell’avvento della computer grafica e della sua freddezza postproduttiva. Il trucco escogitato da Bava è di una tale genuina semplicità da renderlo assolutamente eccezionale: il volto dell’attrice era stato preventivamente coperto da un cerone blu, sul quale erano state disegnate rughe in rosso. Davanti a Gianna Maria Canale, Bava posiziona due proiettori, gelatinati sempre in rosso ed in blu. Con la luce blu accesa, il volto, nella ripresa in bianco e nero, risulta giovane e sereno, senza nulla di visibile che denunci il cerone sul viso. Con il passaggio graduale dalla luce blu alla luce rossa, i tratti disegnati in rosso diventano visibili e neri, invecchiando letteralmente il volto della protagonista.

L’effetto, splendidamente rivoluzionario, è sorprendentemente realistico, e poco importa se ad uno studio più approfondito si può notare un leggero cambio di colore anche del vestito, che tende a diventare più scuro.

La genialità low-budget di Mario Bava, che lo porterà poi a creare mostri di trippa o a zoomare su bambini dallo sguardo glaciale giungendo al più acestrale terrore, sarà per il DOP e regista croce e delizia, bloccandolo per quasi tutta la carriera su un genere che non ha mai sentito pienamente suo. Bava è stato forse il più grande artigiano della storia del Cinema, ma la sua autorialità è stata riconosciuta ed omaggiata -Hitchcock docet- solo molti anni dopo il suo lavoro. I Vampiri è un horror che declina dolcemente nel thriller, dove l’inquietudine non sfocia in paura e la natura umana malvagia è il nemico in carne ed ossa da combattere, in un immaginario ancora legato alla realtà. In questo senso si avvicina, in un paragone con la produzione baviana ‘ufficiale’, più a La ragazza che sapeva troppo (1963) che a La Maschera del Demonio(1960): l’orrore è negli echi che si inseguono, non (ancora) nell’ambientazione fantasmatica ed irreale. La follia de La Frusta e il Corpo (1963) senza gli spettri, citati da Lynch nell’ultima puntata della seconda serie di Twin Peaks, di Operazione Paura (1966).

I vampiri, curiosamente, è stata anche l’unica occasione per il pubblico per vedere Gianna Maria Canale invecchiata. E’ infatti cronaca l’incidente automobilistico del 1974 che lasciò l’attrice parzialmente sfigurata da una paresi e la sua decisione di ritirarsi, prima a Giannutri e successivamente a Sutri, fino alla morte ad 81 anni nel 2009. Mai nessuno l’ha più vista o fotografata, ed è un paradosso quasi magico come quella bellezza giovane ed intatta del doppio personaggio interpretato, la donna che non ‘poteva’ invecchiare, sia così simile alla tragica biografia dell’interprete. Il Cinema è meraviglia anche per questo: corsi, ricorsi, anticipazioni e ricordi.

Recensione di Marco Romagna [CineLapsus.com]