ASSALTO ALLA MONTAGNA DELLA MORTE

 

In un’avventura precedente, il forzuto Hulk Hogan ha sconfitto un avversario che aveva tentato di uccidere lui e i suoi servendosi di armi chimico-biologiche. Erroneamente creduto morto, costui torna in circolazione e minaccia nuovamente Hogan, che reagisce all’attacco ma viene infettato con un virus mortale che gli lascia solamente 72 ore di vita. Naturalmente il team di Hulk passa al contrattacco, vanificando i criminali disegni del malvagio. Quanto a Hulk…

 

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Titolo originale: Shadow Warriors II: Hunt for the Death Merchant
Anno: 1999 I Paese: U.S.A.
Regia: Jon Cassar
Attori:  Hulk HoganShannon TweedCarl Weathers
 

 

 

Le leggende metropolitane, un mondo fatto di tradizioni, mistero, paure ancestrali, fascino. Basti pensare al timore di incontrare l’autostoppista fantasma, alla presenza di alligatori nelle fogne di New York o ad… Assalto alla montagna della morte. Sì, anche questo fantomatico film con Hulk Hogan, seguito dell’altrettanto improbabile Assalto all’isola del Diavolo (1997), rientra tra le urban legends: si dice che in realtà non sia mai stato girato, che chi lo vede si ritroverà impressa sulla fronte un’enorme Z, che alcuni degli attori ivi coinvolti siano scomparsi nel nulla e altre amenità varie.
Ordunque, vi annunzio con gaudio che, dopo annose ricerche archeologiche, l’ho scovato: Assalto alla montagna della morte (in lingua originale Shadow Warriors II) esiste. E gli attori sono vivi e vegeti. Resta solo da sciogliere il dilemma della Z “tatuata” sul volto e, per fare ciò, l’unica soluzione è… guardarlo. Ahimé.

L’incipit consiste in una carrellata sull’eroica squadra di ex Navy Seals, protagonista della pellicola: Shannon Tweed (nei panni di Hunter Wiley) prende a calci un sacco in palestra, Carl Weathers (Roy Brown) scolpisce un blocco di marmo a suon di musica, Hulk Hogan (Mike McBride) è alle prese con visioni di gente morta mentre un preoccupante tic gli tormenta gli occhi e il sudore cola come se dal suo parrucchino scaturisse una falda acquifera. Appunto: il presunto leader del team è quello che sta decisamente peggio. Il loro primo incarico è entusiasmante: una madre li supplica di salvare la figlia, rapita dal marito dopo la separazione. Ulala, roba che scotta: per casi simili oggi ci si rivolgerebbe a Le Iene, negli anni ’90 a wrestler baffuti. Lo so, si stava meglio quando si stava peggio.

Comunque, tra i nostri eroi la disorganizzazione regna sovrana: la bimba si trova in una stanza al pianoterra con parete a vetri, quindi facile da individuare e liberare. Nonostante ciò la Tweed vi arriva, con mille capziosi sotterfugi, passando dall’interno dell’edificio. Mah. Poi, Hulk Hogan, dopo non aver fatto un beneamato NULLA, decide di entrare nel palazzo e dare qualche sganassone quando ormai la fanciulla è in salvo, esaltando così l’inutilità del suo apporto. Oh, a me questa squadra pare composta, più che da militari, da affiliati dell’U.C.A.S.: ufficio complicazione affari semplici.

In seguito alla missione-babysitter, Carl e la bella Shannon si recano a trovare Andy Powers (interpretato dal mitico Martin Kove) che, dopo il film precedente, è stato praticamente “internato” perché gli manca qualche venerdì. Anzi, a giudicare da come si presenta, molti: capelli biondo platino, cravatta arancione, camicia magenta, bretelle… ma chi l’ha vestito? Mr.T? Intanto, Hulk fa di meglio: sospettando che un terrorista, creduto morto e colpevole di aver usato armi chimiche contro la sua ex squadra, sia ancora vivo, va a cercarlo in un accampamento in pieno deserto. La questione, lecita, sul come e perché il nostro si sia diretto precisamente lì viene superata, in una classifica delle assurdità di questo film, dal fatto che il protagonista sbaraglia ogni nemico da solo. DA SOLO.

Nugoli di cattivi sparano senza manco sfiorarlo, lui li ammazza tutti. Tutti meno uno, il gigantesco Vlassi che lo mette KO con un cazzottone. Onore toccatogli perché facente parte della casta di “amici di Hogan”, lottatori spesso risibili cui l’eroe americano, con sommo nepotismo, ritaglia piccole parti nelle sue pellicole: vi sia sufficiente sapere che l’amichetto in questione, tale Ron Reis, è ricordato, nel wrestling, per aver interpretato il personaggio dello Yeti (?), per essere vestito però come una mummia (??) e per aver eseguito una mossa talmente male da sembrare che stesse sodomizzando il suo avversario (???). Quell’avversario era proprio Hulk Hogan. E magari gli è pure piaciuto. E quindi… si spiega tutto.

In ogni caso il medico cattivo effettivamente è vegeto ed arzillo e quando i “guerrieri ombra” giungono a liberare il protagonista, questi è stato ormai infettato con un virus che gli lascia 72 ore di vita. Ma come? Non era Hulk che uccideva i virus e non viceversa? Ah no, forse mi confondo con Chuck Norris. Chiarito l’equivoco, i nostri, altresì per farsi dare l’antidoto, vanno all’assalto del dottore asserragliato in quella che presumibilmente è la montagna della morte cui allude il titolo; peccato si tratti di una collinetta scarsa scarsa: almeno l’isola del primo film era effettivamente tale anche se devo riconoscere che Assalto al dosso della morte non sarebbe stato proprio un titolo azzeccato.

Comunque l’attacco dei nostri è davvero poco entusiasmante: la cosa che mi ha stuzzicato di più è stato lo scontro tra Hogan e l’amico wrestler sodomizzatore; notate bene: il protagonista ha avuto la meglio… prendendolo da dietro. Stai a vedere che il set è stato galeotto? Con questo “gaio” dubbio ci avviamo alla prevedibile conclusione (il nostro troverà l’antidoto? Suvvia, sapete già la risposta) e… un momento. Nel toccarmi la fronte ho sentito come una cicatrice. Bella grossa. Pulsante. E mi pare quasi… che abbia la forma di una Z. È proprio vero: tutte le leggende hanno un fondo di verità. Specialmente quelle che il fondo… lo toccano.

Recensione da Il Zinefilo