🎅 NATALE DI SANGUE in ALTA DEFINIZIONE!

 

Uno psicopatico commette una serie di omicidi la vigilia di Natale. Poi si maschera di Babbo Natale e irrompe in un convento di suore e minaccia di fare una strage.

 

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Titolo originale: Silent Night, Deadly Night
Anno: 1984 I Paese: U.S.A.
Regia: Charles E. Sellier Jr.
Attori: Lilyan ChauvinGilmer McCormickToni Nero 
 

 

Pagherei oro per poter tornare indietro nel tempo e godermi le facce di tutti coloro che sono al cinema a spararsi la prima di Silent Night, Deadly Night. È il 1984 e, con un titolo del genere, uno entra in sala con la mente che corre subito a variazioni sul tema del massacro casalingo – che sia per mano di un serial killer o di un’entità soprannaturale è l’unico dubbio che rimane. Sono gli anni in cui “horror” si identifica più con Non entrate in quel collegio che con Le colline hanno gli occhi, e con ciò voglio dire che la fine degli anni Settanta aveva scoperchiato un vaso di Pandora fatto di “metti il mostro nel quadretto familiare”, e ci si concentrava più volentieri sul sovvertire l’ordine costituito casalingo/domestico che sull’andarsene in giro in luoghi desolati incontrando creature orride. Tanto è vero che gli anni Ottanta saranno un bagno di sangue per la famigliola media americana, e uno se ne può accorgere anche semplicemente guardando a Twin Peaks come alla culminazione intellettuale e ripulita di quel percorso.

E d’altronde appena un mese dopo quel 9 novembre, quando l’uscita di Silent Night, Deadly Night fa infuriare anche Siskel & Ebert, al cinema arriva praticamente lo stesso film, intitolato Non aprite prima di Natale!che per quanto non carente in shock factor non solleva neanche un decimo delle polemiche del suo predecessore, né si registrano petizioni per portarlo fuori dalle sale come accaduto in Inghilterra con il film di Charles Sellier. È facile far risalire tutto alla ormai storica campagna di lancio di Silent Night, Deadly Night a base di Babbi Natale armati di ascia che rovinano l’immagine del genetliaco del Cristo e sconvolgono i bambini, e ridere della richiesta della sempre ineffabile PTA di estirpare il morbo dalle sale cinematografiche. Tutte balle che nascondono una verità ben più interessante: Natale di sangue, così l’abbiamo sobriamente intitolato da noi, non è e non è mai stato lo slasher che la gente si aspettava andando al cinema. Nelle parole dei due più influenti critici cinematografici della storia:

Rido sempre di gusto quando sento tessere le lodi del remake «più psicologico e introspettivo» del primo Halloween, che peraltro già di suo era un film sulle origini del male più che sulle sue azioni. Rido perché la stessa intuizione – prendere una notte di massacri e costruirci intorno un character piece che li giustifichi e ci aiuti a empatizzare, se non a giustificare – sta dietro a Natale di sangue, che degli slasher classici ha solo le secchiate di plasma e che si appoggia nel suo incedere più agli horror psicologici anni Settanta che al rassicurante alternarsi di scena di morte-scena di dialogo di un Nightmare o un Venerdì 13. La scelta di procedere in rigoroso ordine cronologico nella narrazione è l’espediente formale più semplice che ci sia per insinuare tensione e causare shock quando esplode; in termini tecnici si chiama «non lasciar capire dove il film voglia andare a parare», a partire dall’uso di quella che si rivelerà essere una doppia introduzione – senza considerare il dettaglio, che potenzialmente è uno SPOILER, che il serial killer di turno è quello che il film pone al centro del suo discorso. Il protagonista, mi pare si chiami.

Conosciamo Billy Chapman tre volte nel corso. Prima a cinque anni, in visita al vecchio nonno rincoglionito delle montagne dello Utah: la classica scena del “vecchino inquietante” che spiega al nipote che Babbo Natale punisce i bambini cattivi, e che prelude a una storia camp fino al midollo, con un maniaco vestito da Santa che assedia la casa della famiglia Chapman, o forse con un qualche antico demone che si manifesta prendendo le sembianze dell’omino dei regali che però non esiste. Sbagliato: Babbo Natale è un ubriacone che massacra la famiglia di Billy sotto i suoi occhi. OH OH OH!

Dopo un secondo atto breve e senza eventi (cioè senza morti, ma in realtà centrale per lo sviluppo della vicenda), che si concentra principalmente sugli abusi e le torture che la madre superiora dell’orfanotrofio dove è finito Billy perpetra sul ragazzino, comincia a subentrare una sottile confusione. L’assassino è sparito, né era mai stato caratterizzato a sufficienza da far pensare in un suo ritorno, e tutto quello che stiamo subendo è una lenta e metodica decostruzione di tutto ciò che di bello ci hanno sempre raccontato sul Natale. Il disagio che Natale di sangue insinua è amplificato quando si ammette con sé stessi che Billy ha, sotto sotto, perfettamente ragione: il mistero sull’identità di Babbo Natale e sui suoi veri scopi, l’insistenza sul concetto di “punire i cattivi”, l’idea di un vecchio con la barba che spia i bambini 365 giorni l’anno per giudicarli. C’è qualcosa di malsano nell’estetica stessa del Natale, e Sellier, che pure è un regista piuttosto normale, lo capisce e preferisce farsi da parte e far sì che siano luci, addobbi, bambole ghignanti e barbe posticce a martellare la coscienza del povero Billy, tormentato dal concetto piuttosto cattolico di “peccato” applicato a una figura pagana e che lui stesso ha visto “punire” i propri genitori a colpi di pistola e coltello alla gola.

Con tempismo perfetto, è quando incontriamo Billy diciottenne e manovale in un negozio di giocattoli che i pezzi del puzzle vanno a posto: Sellier e Michael Hickey, il cui trattamento riservato a quella che è un’istituzione del consumismo cattolico d’accatto gli è sostanzialmente costato la carriera, hanno torturato un infante per mezz’ora, e con un salto temporale ce lo ripropongono che è diventato un sandrone di due metri con la mascella da surfista, bello e gentile e sempre disponibile ma, sotto la crosta, cotto a puntino per inscenare una versione estrema della sindrome di Stoccolma. Rapito dal Babbo Natale sbagliato e trascinato con violenza in una dimensione psicologica in cui tutto è peccato e il ciccione con la barba il giudice supremo, Billy finisce per spezzarsi e cadere definitivamente ai piedi del suo simbolico aguzzino, abbracciandone l’identità e diventando il Santa Claus Killer le cui gesta sono poi il cuore del film.

Natale di sangue è un film sacrilego, la cui tesi di fondo è che non esiste nulla di sacro, e tutti i valori positivi che attribuiamo ai simboli della nostra civiltà sono artefatti, una forma di autoconvincimento e autorassicurazione che ci autoimponiamo per trascorrere delle feste serene e per convincere i nostri bambini a non cacare il cazzo tutto l’anno. Il terzo atto, il più lungo e violento, lascia smarriti: tutta la violenza che vediamo – e ce n’è tanta – è frutto di un percorso, di un concorso di colpe, della dannatissima sfiga di vivere in un mondo in cui un ladro vestito da Babbo Natale può sbronzarsi abbastanza da dare origine, tredici anni dopo, a un serial killer.

Prigioniero della sua mente e della sua personale mitologia, Billy è poco più che un animale, che Sellier si diverte a far giocare con i simboli del compleanno di JC from Bethlehem per dissacrarli e sfotterli: valete davvero qualcosa, palline colorate e sbrilluccicose, se qualcuno decide che rappresentate uno stupro per strada invece che la gioia per l’arrivo del Natale? In questo senso il film è più psicologico della media degli slasher, pur abbondando nella carnalità: ogni colpo d’accetta non è solo il brivido di un colpo secco che ammazza un personaggio, ma il ricordo di violenze, drammi e sfighe varie che hanno tormentato il povero Billy.

Non è per niente un film divertente, e non è facile dirlo di un horror con decine di morti e un Babbo Natale omicida. Né certi eccessi didascalici, e un finale accettabile ma rovinato da una sciocca strizzatina d’occhio, ne riducono l’impatto: dura solo un’ora e venti ma Natale di sangue è sfiancante, e come dice l’uomo della strada ti fa pure sentire un po’ sporco dentro.

D’altra parte c’è una tizia con le puppe di fuori che viene impalata sui palchi di una testa di alce impagliata quindi ecco, non vorrei aver dato l’impressione che stiamo parlando di Lars von Trier, altrimenti non vi consiglierei mai di tutto cuore il recupero immediato.

Recensione da i 400Calci