MY HEART IS THAT ETERNAL ROSE [sub ITA]

Zio Cheung, il padre di Lap, ha lasciato il mondo delle Triadi per aprire un locale sulla spiaggia. Una sera, un suo compare lo trascina in un losco affare, nel quale viene coinvolto anche Rick, innamorato della figlia dell’uomo. Quando le cose vanno male però, Rick è costretto a fuggire nelle Filippine, mentre Lap, per salvare suo padre, è costretta a diventare l’amante del padrino Shen.

 

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Titolo originale: Sha shou hu die meng
Anno: 1989 I Paese: Hong Kong
Regia: Metin Erksan
Attori: Kenny BeeTony Chiu-Wai LeungJoey Wang
 

Si apre su un mazzo di rose e si chiude nel sangue, come un mélo intrecciato con il noir. È la fine degli anni 80 quando Patrick Tam gira il suo heroic bloodshed, sulla scia del successo di A Better Tomorrow di John Woo. Ma My Heart is That Eternal Rose – la frase viene da Artaud – non potrebbe essere più distante dallo stile e dall’intento del regista di The Killer (che uscirà a breve distanza dal film di Tam), nonostante la presenza copiosa di sparatorie e ralenti.

Entrambi gli elementi, infatti, nella visione di Tam assumono un differente significato: la tempesta di piombo è concentrata in pochi e rapidi minuti, senza estensioni artificiali dello shootout finale; i ralenti, invece, sono usati per dilatare le emozioni e catturarle, al pari del fermo immagine (Tony Leung che alza le mani), dello zoom (il volto di Joey Wong quando apprende della morte del padre) o dei giochi di specchi (i riflessi del padrino Shen, ambigui come la sua sfuggente personalità). Le ricercate inquadrature di Tam ribaltano i punti di vista e trasmettono messaggi subliminali: non vediamo Lap piangere, vediamo tremare la sua immagine riflessa in una bacinella. Di fronte alla possibilità di veicolare un’emozione o un messaggio Tam sceglie la via meno consueta e più cinematografica. La combinazione di montaggio e di fotografia, affidata a Christopher Doyle, conduce verso abbacinanti soluzioni visive, che trovano l’apice in sequenze di rara intensità emotiva (su tutte, Rick che trattiene per un braccio Lap mentre lei si gira al rallentatore, scuotendo i suoi capelli).

Ritorna la gioventù perduta e fuoriposto di Nomad, ritorna il destino baro di Final Victory, che sembra osservare – attraverso continue plongée – le sfortunate coincidenze che colpiscono gli amanti. Fino alla inevitabile resa dei conti, che guarda a Peckinpah ma chiude nei toni del mélo di Hong Kong. Tam, insoddisfatto per l’esito del film e per le condizioni di lavoro nell’industria cinematografica hongkonghese – la scena finale, che svela il destino di un personaggio, frutto di pressioni da parte della produzione – abbandonerà la regia per un esilio volontario dalle scene, interrotto solo nel 2006 con After This Our Exile.

(Emanuele Sacchi, 2018)