MILANO ODIA: LA POLIZIA NON PUO’ SPARARE

Giulio Sacchi, feroce balordo di periferia, organizza il rapimento di una ragazza, figlia di un ricco imprenditore. Sulle sue tracce il commissario Grandi, che ha capito tutto, anche l’epilogo tragico della vicenda. Dovrà farsi giustizia da solo.

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Titolo originale: Milano Odia: La Polizia Non Può Sparare
Anno: 1974 I Paese: Italia
Regia: Umberto Lenzi
Attori:  Tomas MilianHenry SilvaLaura Belli 
 

Capolavoro diretto con maestria dal grande Umberto Lenzi, osannato non solo dai cultori del cinema di genere italiano, fonte di ispirazione per molte opere a venire. Il film ruota attorno alla figura di Giulio Sacchi, criminale di mezza tacca vile e folle allo stesso tempo, un megalomane imprevedibile e spietato, che orchestra il rapimento della figlia di un ricco industriale assieme a due complici, lasciandosi dietro una lunga scia di sangue e violenza. Il commissario Grandi, dopo numerosi indizi ed intuizioni, non ha più dubbi sulla colpevolezza di Sacchi, ma vistosi impossibilitato ad arrestare il criminale per insufficienza di prove, secondo i suoi superiori, decide di far giustizia personalmente.
In un’ epoca in cui stragi, sequestri, omicidi a sfondo politico, rapine, estorsioni, erano all’ordine del giorno e bande armate, terroristi e criminali di ogni specie, imperversavano per le vie delle città italiane, il cinema di genere non poteva che risentire di tale clima di tensione e venirne influenzato, trasportando sullo schermo proprio ciò che avveniva nelle strade. Non è un caso che il poliziesco all’italiana abbia avuto all’epoca così tanto successo di pubblico (meno, invece, di critica, che spesso bollava i film appartenenti al filone come fascisti e reazionari, cosa assolutamente non vera).
Benché venga spesso annoverato tra i film più importanti del poliziottesco, “Milano odia: la polizia non può sparare” è in realtà un noir forte e violento, che si discosta dal genere appena citato per diversi motivi. In primis il protagonista non è un poliziotto; Giulio Sacchi è uno psicopatico manipolatore che trasuda alcol e anfetamine da ogni poro (un Tomas Milian perfettamente “calato” nella parte, nel vero senso della parola! In numerose sequenze infatti lo stato alterato dell’attore è quasi palpabile, tanta l’evidenza, ma sempre funzionale alla messa in scena) furbo e spietato, capace di uccidere per 600 lire, un po’ per paura, un po’ per crudeltà e ferocia, ferocia scaturita dalla sua rabbia contro la società benestante e contro chi è più forte di lui. Perchè Sacchi fa il duro solo con i più deboli, con i veri duri è sottomesso e cerca di farsi prendere in considerazione ostentando noncuranza del pericolo e determinazione, spesso dopo aver imbracciato il mitra e mandato giù qualche pasticca. Questo dualismo è chiaro sin dalle prime scene, in cui prima implora pietà durante il pestaggio a opera dei tirapiedi del boss Maione e poi tende a prevaricare sulla sua ragazza e successivamente su altri personaggi più fragili e insicuri, come i suoi amici, la ragazza rapita o le persone prese in ostaggio nella villa. Nella sua follia, Sacchi, non risparmia nessuno, tutti i possibili testimoni devono morire. Questo aspetto della storia la rende ancora più cupa, avvicinando ulteriormente la pellicola al noir piuttosto che al poliziesco. Un’altra differenza rispetto al poliziottesco è la figura del commissario, centrale nel filone inaugurato nel 1972 da Steno con “La polizia ringrazia” e qui invece subordinata al personaggio di Giulio Sacchi. Inoltre il commissario Grandi (interpretato da Henry Silva) non è nervoso come il commissario Belli de “La polizia incrimina, la legge assolve” (Enzo G. Castellari, 1973) o bellicoso come i futuri commissari Betti e Tanzi interpretati da Maurizio Merli, il suo carattere è più mite e il suo atteggiamento rassegnato, di fronte all’impotenza della polizia. Può essere accomunato ai suoi “colleghi” più violenti nel finale, in cui, pistola alla mano, giustizia il suo nemico lasciandolo poi morire tra cumuli di terra e immondizia. Tutti i personaggi sono ben costruiti e ben caratterizzati, anche i meno rilevanti. Lenzi ci guida in una Milano che pullula di criminali più o meno feroci, ci illustra le conoscenze di Giulio e gli ambienti che frequenta in maniera molto realistica. Anche la violenza, esasperata e cruda, è “reale”, nel senso che è una conseguenza naturale della follia del protagonista, e non ci si aspetterebbe comportamenti diversi da parte sua.
Il culmine della brutalità di Giulio viene raggiunto nella scena del massacro nella villa, in cui le vittime vengono seviziate e uccise selvaggiamente. Una scena forte, che sembra uscita da un rape and revenge, in cui per di più, fuoricampo, muore anche una bambina, unico, brevissimo, momento di pentimento di Giulio. Dal punto di vista tecnico il film può vantare una solida regia, un ottimo cast (da segnalare, oltre alla prova attoriale immensa di Milian, le interpretazioni molto convincenti di Ray Lovelock e di Gino Santercole, nei panni dei complici di Sacchi), le “pesanti” musiche di Morricone, il montaggio di Eugenio Alabiso. Inutile dire che un film del genere e la figura di Giulio Sacchi hanno influenzato notevolmente la cultura, underground e non, ispirando non solo cineasti. La pellicola infatti è stata omaggiata in ambito musicale da esponenti dei generi più disparati, dal grindcore (i Cripple Bastards, con la raccolta di tracce “Almost Human”, titolo inglese del film di Lenzi) alla tekno (Virus Voice aka Lou Chano dei Tekno Mobil Squad con la traccia “Shotgun” del disco “TMS 004”, in cui campiona il dialogo tra Giulio e Marilù, la ragazza rapita).
Un cult imprescindibile per gli amanti del cinema.

Scritto da Alfredo Squillaro [Interzona]

Grazie a: cinico sognatore