BEGOTTEN

L’intreccio si sviluppa in modo poco chiaro fino ai titoli di coda: all’inizio vediamo l’interno di una casa in una campagna isolata. Qui avviene l’inspiegabile suicidio, mediante un rasoio, di un personaggio in maschera. Da qui in avanti si vedranno una serie di immagini e situazioni agghiaccianti in un crescendo insostenibile per lo spettatore.

 

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Titolo originale: Begotten
Anno: 1989 I Paese: U.S.A.
Regia:  E. Elias Merhige
Attori: Brian SalzbergDonna DempseyStephen Charles Barry
 

 

Forse uno dei film più bizzarri e incomprensibili mai visti su uno schermo: mescola al proprio interno trama e messaggi criptici, che diventano chiari (?) solo alla fine, lasciando lo spettatore quasi tramortito. Ce ne vuole, ad essere proprio onesti, perchè un arthouse puro del genere sia seriamente equiparabile alle allucinazioni lynchiane o alle complesse simbologie annidate nei più oscuri horror nipponici o tedeschi: così il pubblico resta annichilito, e della visione probabilmente sopravvive poco o nulla.

In breve: guardare “Begotten” per intero è un progetto cinematograficamente “suicida”, una “Mission impossible” da effettuarsi con tempi e modi quasi anacronistici, rispetto alla frenesia moderna. Un viaggio di sola andata che potrebbe cambiare per sempre la vostra idea del cinema, o – più probabilmente, forse – farvi maledire Merhige a vita. Se si riesce a vederlo tutto senza sbirciare la trama tanto meglio, ma la mission del film resta sproporzionatamente più piccola rispetto al linguaggio utilizzato.

Come una fiamma che brucia l’oscurità, la vita è carne su ossa che si agitano sulla terra“: questa enigmatica frase chiude l’introduzione dell’opera di E. Elias Merhige, regista horror decisamente sui generis, molto debitore dell’espressionismo (suo anche il film L’ombra del vampiro). Il regista di Begotten vuole stupire, questo è certo, e presenta un film essenziale, girato in bianco e nero con lo scopo di disturbare, causare shock e, in certa misura, fare discutere. Ma attenzione: qui non si tratta degli equilibrismi simbolici azzardati da Jorg Buttgereit in Der Todesking, che (nel loro morboso realismo) si mantengono sia pur vagamente comprensibili. La tendenza all’ermetismo in Begottne è ancora più estremizzata, ancora più accentuata nel mostrare crudeltà e violenza, e questo senza che ci siano dialoghi nel film e senza che una trama risulti chiara. Quindi è peggio ancora, se possibile, perchè in più parti lo spettatore non capirà cosa si stia guardando, e non è detto che questo sia un bene: nessun dialogo, nessuna musica, nessun vero punto di riferimento sull’intreccio – se non strane figure mascherate ed incappucciate che sembrano vivere fuori dal tempo. Probabilmente, se non altro, l’espediente per obbligare il pubblico a vedere tutto il film fino alla fine prima di emettere giudizi può (almeno sulla carta) essere considerato interessante.

Il suicidio di un uomo mascherato all’inizio, il parto di un umanoide tremante, sevizie e violenze di gruppo, rappresentazione di un dolore senza redenzione, senza motivazione, ed ampio spazio alla rappresentazione della natura (tramonti, albe, alberi e vegetazione in generale): per il resto preferisco non raccontare la trama perchè, in fondo, è davvero molto essenziale – e perde parecchio, in qualsiasi sintesi possiate trovare sui libri o nel web – e prova a diventare chiara soltanto alla fine

Begotten, in altri termini, non è altro che un’insostenibile carovana di orrore puramente da cineforum, reso certamente suggestivo da determinati tipi di inquadrature ed accortezze stilistiche, ed è fondamentalmente distante da qualsiasi stile riconoscibile: certo, si puo’ parlare di sperimentazione pura, ma questa è un’arma a doppio taglio per cui lo spettatore potrà, in molti casi (e comprensibilmente) abbandonare la visione dell’opera dopo neanche 15 minuti. Prendere o lasciare, insomma.

Resta il fatto che Begotten è insostenibilmente violento ed esplicito, e va visto con molta attenzione perchè è facile disorientarsi al suo interno. Il rischio è che il tutto venga declassato ad un delirante radical-chic intellettualistico e fine a se stesso: un rischio, a dirla tutta, abbastanza fondato, che serve – più che a sminuire il gusto e le doti artistiche di Merhige, a mettere in guardia il suo pubblico a capire un cinema fuori dal tempo (e non solo perchè film del genere sono rari ed escono fuori ogni 50 anni). Se lo spettatore regge fino alla fine, del resto, solo dai titoli di coda riuscirà a comprendere il senso dell’opera, e non è detto che l’epifania sia del tutto soddisfacente. A molti, tanto per dare un’idea in più, sembrerà di vedere una piece teatrale del Beckett più contorto espressa in chiave horror-concettuale.

Al di là del tema dell’ambientalismo, secondo me, diventa fin troppo complesso fornire interpretazioni ulteriori che sconfinerebbero, a mio avviso, in discorsi completamente privi di senso. Tutto sommato l’idea era abbastanza buona, e nessuno mi toglierà dalla testa che come cortometraggio sarebbe stato decisamente più efficace (e non necessariamente più appetibile, che è una cosa ben diversa). A dirla tutta, come accennavo poco fa, l’idea è tutt’altro che stupida, solo che Merhige non possiede il dono della sintesi (o vi rinuncia deliberatamente), finendo per girare su una sorta di elitarismo intellettuale. Poi si dilunga troppo a spaventare, disgustare ed insistere su dettagli poco chiari, col risultato che – alla peggio – annoia da morire lo spettatore.

Le scene hanno comunque una fotografia notevole, tanto che il regista ha affermato che ogni singolo minuto di girato (72 in tutto) ha richiesto ben 10 ore di lavoro in fase di creazione dell’effetto “pellicola consumata” e del tutto priva di mezzi toni. Ad ogni modo un film che gli appassionati di sperimentazioni orrorifiche e psichedeliche potranno gradire e, alcuni, in ogni caso una delle più importanti pellicole di tutti i tempi. I più curiosi, a questo punto, vorranno certamente provare a vederlo.

Recensione da Lipercubo.it