LA CITTA’ DEI MOSTRI

 

 

Nel 1765 nel villaggio di Arkham viene bruciato sul rogo Joseph Curwen, accusato di sacrifici umani. Un secolo dopo un suo discendente, Ward, si stabilisce ad Arkham con la moglie. Sotto l’influenza dell’antenato, giunge a identificarsi con lui, malgrado i vani sforzi degli abitanti del villaggio per sconfiggere il potere di Curwen su Ward e la moglie.

 

 

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Titolo originale: The Haunted Palace
Anno: 1963 I Paese: U.S.A.
Regia:  Roger Corman
Attori:  Vincent PriceDebra PagetLon Chaney Jr.
 

 

La città dei mostri, ecumenico, innocuo e anche un po’ insipido titolo italiano che non traduce l’originale The Haunted Palace, vide la luce nel 1963, uno dei periodi più floridi per la produzione di Roger Corman. Impazzavano infatti sugli schermi gli adattamenti che il regista e produttore statunitense traeva dai racconti e dalle poesie di Edgar Allan Poe: grande scalpore avevano provocano I vivi e i morti, desunto da La caduta della casa UsherIl pozzo e il pendoloSepolto vivo (vale a dire La sepoltura prematura), I racconti del terrore (che mette insieme MorellaIl gatto nero e Il barile di Amontillado, e Valdemar), e I maghi del terrore, con Richard Matheson che rilegge in modo a dir poco personale Il corvo. La saga continuerà, dopo La città dei mostri, con La vergine di cera – che utilizzerà gran parte delle scenografie del film precedente, per risparmiare contemporaneamente tempo e denaro –, La maschera della morte rossa e La tomba di Ligeia.
Anche La città dei mostri venne venduto al pubblico come l’ennesimo adattamento di una delle opere di Poe: non a caso The Haunted Palace è il titolo di una poesia dell’autore di Baltimora, racchiusa nel già citato dramma orrorifico ambientato nella magione degli Usher. Nessuno ebbe molto da ridire, e per molti anni ci si limitò ad annoverare questo tragico e spaventoso pezzo della filmografia di Corman all’interno della suddetta “serie”. In realtà sarebbe bastato prestare attenzione agli eleganti titoli di testa, giocati graficamente attorno alla rete di un ragno, per rendersi conto che alla voce sceneggiatura si legge: “Screenplay by Charles Beaumont from the Poem by Edgar Allan Poe and a Story by H.P. Lovecraft”. Howard Phillips Lovecraft, il romanziere di Providence al quale si deve tra le altre cose il Necronomicon e il mito di Chtulhu. Ecco chi c’è veramente alla base de La città dei mostri; se questo dettaglio decenni fa poteva passare in secondo piano, ora è difficile che qualcuno non colleghi l’ambientazione della storia, Arkham, o il nome del protagonista (Charles Dexter Ward) alle opere di Lovecraft.

Roger Corman, con l’abilità che ha reso la sua produzione uno dei tre poli d’attrazione dell’horror a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso – gli altri due, non è nemmeno il caso di specificarlo, sono la Hammer in Gran Bretagna e la produzione italiana del fantastico, tra Mario Bava, Riccardo Freda e Antonio Margheriti –, non rinuncia nel suo The Haunted Palace alle atmosfere che aveva messo a punto con precisione certosina nel corso del tre anni precedenti. Il castello di cui entrano in possesso Ward e sua moglie, ignorandone il potere malefico, ha le stesse forme e gli stessi passaggi segreti di quello del futuro pazzo Molina ne Il pozzo e il pendolo, e simili sono le inquadrature a strapiombo sul mare in risacca che tanto turbano il sonno di Ward; la scenografia, come già detto anche per una questione di mero risparmio economico, si muove nelle direzioni già intraprese, e il discorso torna valido anche per la creazione degli effetti visivi, tra ragnatele che sembrano millenarie e una persistente nebbia che rende tutto astratto, indefinito, magico nel senso più deteriore del termine.
Pur maneggiando una letteratura che solo alcuni tratti ha in comune con quella di Poe, per poi deviare altrove soprattutto per quel che concerne la descrizione dell’immateriale, Corman ribadisce la propria intenzione di rielaborare il concetto di gotico, adattandolo allo sguardo dei suoi contemporanei. Alcuni dei temi posti al centro del racconto sono senza dubbio più prossimi a Poe che a Lovecraft, come per esempio la progressiva perdita di senno di Ward, frutto dell’ereditarietà; l’oppressione psicologica – ma forse, chissà, anche strettamente stregonesca – dell’enorme dipinto che raffigura l’antenato Joseph Curwen e che fa bella mostra di sé nel salone del castello; il rapporto con la moglie, e più in generale con il femminile, in qualche modo sbilanciato verso un romanticismo malsano.

Ma questi elementi non eliminano da La città dei mostri la sua vera radice letteraria: ecco dunque citati i Grandi Antichi (in realtà il dottore che li passa in rassegna si limita a fare il nome di Cthulhu, per poi condensare i vari Bugg-Shash, Dagon, Ghatanothoa, Zoth-Ommog e Shub-Niggurath in uno sbrigativo “eccetera”), e anche il Necronomicon, lo pseudobiblium che si vorrebbe scritto dal folle arabo Abdul Alhazred; ecco anche tentare una dimensione non psicologica – quella che, in un modo o nell’altro, domina comunque le regie di Corman, sempre particolarmente attento all’evoluzione dei suoi personaggi, ai loro desideri, alle loro paure, alle loro idiosincrasie – con il delirante sogno di fondere il sangue umano e lo sperma divino per creare una nuova razza pronta a dominare la Terra. La tensione verso l’immateriale, gli “strani eoni in cui persino la morte può morire”, che è uno dei topos poetici di Lovecraft, trova traccia solo qui, e seppur ridotta a una dimensione da scienziato pazzo, riesce a evocare quegli abissi di orrore che prorompono dalle pagine dei migliori racconti del romanziere statunitense. Cercando il punto di incrocio tra Il caso di Charles Dexter Ward (forse il più poeano dei racconti di Lovecraft, scritto nel 1927 e pubblicato postumo nel 1941) e L’orrore di Dunwich, soprattutto per la descrizione del villaggio, e l’obiettivo di far rimanere gravida una ragazza per “mano” di uno dei mostruosi dei dell’antichità, Corman celebra una volta di più il trionfo dell’immaginario sulle caduche mode del quotidiano. Nel trovare un sincretismo che unisca i due grandi maestri del terrore letterario statunitense Corman non semplifica la materia, ma la rende fluida, come se secoli e appartenenze culturali differenti potessero parlarsi senza alcun tipo di incomprensione, superamento di ogni barriera e ostacolo linguistico, filosofico, procedurale. E il primo piano finale di Vincent Price, mattatore assoluto della serie dedicata ai racconti di Poe (non recita solo in Sepolto vivo, dove viene sostituito da Ray Milland), che mantiene l’ambiguità sull’anima del protagonista, e i suoi propositi per il futuro, è un’immagine di tale potenza da non lasciare la mente per un bel po’ di tempo. Eoni?

Recensione da Quinlan